CARO direttore, mentre la destra italiana si appassiona ai tatuaggi di chi compie violenze, nel resto del mondo l'Italia è sotto la lente d'ingrandimento come Paese a rischio xenofobia. Giornali liberali (e persino conservatori) inglesi o tedeschi, francesi o spagnoli scrutano e trovano nelle vicende italiane i segnali di un nascente razzismo sottovalutato e non combattuto - quando non letteralmente alimentato se non altro dal punto di vista del clima politico - dal governo che si è insediato in queste settimane. Confesso che il dibattito sui tatuaggi (fuor di metafora, la discussione sulle appartenenze politiche dichiarate da chi compie i raid contro i negozi cingalesi) mi appare del tutto inutile o meglio gravemente dannoso. Non essere allarmati davanti a quello che accade è un pessimo segnale: il mito della giustizia fai-da-te è già un problema politico, l'aggressione a cittadini per la loro nazionalità o etnia è già l'annuncio di un rischio xenofobo. E' stata Famiglia cristiana a porre la domanda più provocatoria e imbarazzante: perché, se c'è tanta voglia di ronde, in questi anni nessuno le ha fatte contro i camion della camorra che portavano i rifiuti nelle discariche criminali?
Credo che, se la politica vuole essere all'altezza della sfida, le domande da porsi siano ancora più radicali. Quali radici ha quel senso di paura che attraversa la società italiana? E quali risposte bisogna dare per evitare che la paura prenda la direzione della violenza e dell'irrazionalità? Mi è capitato di dire più volte che il bisogno di sicurezza non è né di destra né di sinistra, ma che è un diritto inalienabile dei cittadini. Ma quando parlo di diritto alla sicurezza (fateci caso, questa parola sta sostituendo altre che in passato avevano maggiore circolazione come legalità e giustizia e anche questo non è ininfluente) mi riferisco a quel diritto ad un perimetro, individuale e sociale insieme, di certezza e di tranquillità. Le paure assediano oggi questo perimetro e, nella percezione di molti, hanno già aperto qualche falla quando non abbattuto ogni difesa.
Zygmunt Bauman, che più acutamente di tutti ha cercato di indagare questo universo, ha indicato tre tipi di paure e non per amore di catalogazione ma per indicarci quanto complesso e intrecciato sia questo universo individuale e sociale. Ci sono paure - dice il sociologo - che minacciano il corpo e gli averi, quelle che insidiano la propria collocazione nel mondo e la propria identità, esponendoci alla possibilità di essere umiliati ed esclusi a livello sociale e quelle di natura più generale, che riguardano la stabilità e l'affidabilità dell'ordine sociale. Tre livelli diversi, quasi dei cerchi via via più larghi.
Il primo (il corpo e gli averi) è quello più evidente, il più sensibile ed esposto a quella che chiamiamo microcriminalità. Il secondo tocca la propria collocazione sociale, la posizione all'interno del mondo, la sorte del proprio reddito, del proprio lavoro, della considerazione diffusa che il mondo ravvicinato ha di te e, come in uno specchio, anche la percezione di sé stessi rispetto agli altri. Il terzo, il più largo e forse il meno avvertito ma insieme quello più condiviso, è la percezione dell'efficienza complessiva del sistema all'interno del quale si vive.
Ebbene credo che oggi siano a rischio contemporaneamente tutte e tre questi livelli, o almeno, per una gran parte dei cittadini, tutti e tre mostrino una sorta di febbre: il sistema non dà certezze di affidabilità, la stabilità (o magari il potenziale miglioramento) del proprio ruolo sociale è messa in discussione per larga parte della società italiana da un processo di impoverimento che non è solo materiale ma anche di ruolo. E contemporaneamente i fenomeni di criminalità fanno apparire minacciata anche la zona più ravvicinata, quasi letteralmente la nostra pelle. Mi è capitato di dire che in una società impaurita, quando avvengono dei traumi anche soltanto vicini, questi vengano vissuti come una invasione insopportabile.
E' sempre Bauman a dire che la questione della sicurezza sia oggi al centro del marketing politico: i programmi elettorali - afferma il sociologo che ha inventato la formula della "società liquida" - sono spesso costruiti attorno a questo tema, così come le vendite dei giornali o gli indici dell'auditel salgono quanto più si parla di questo. Paure fondate e paure indotte, realtà e percezione possono apparire in contraddizione. Eppure le due cose convivono si mescolano.
La sicurezza è un problema reale e negarlo è un errore drammatico (certamente le forze della sinistra radicale, che lo hanno fatto, hanno pagato un prezzo salato a questo errore), ma è stato contemporaneamente un elemento fondamentale del marketing politico. Era, nella campagna elettorale, l'ingrediente più consistente usato dalla destra, cominciando dalla Lega che lo ha maneggiato con straordinaria abilità e improntitudine. L'uso della paura aiuta a vincere le elezioni, ma non aiuta a governare.
Queste paure bisogna allora disinnescarle attraverso risposte, sociali e culturali. Ecco, disinnescarle è probabilmente la parola giusta. Non si possono negare o rimuovere come non si possono cavalcare o alimentare. Tutto può stare nello stesso contenitore della paura, non importa quali siano le vere cause dei singoli fenomeni sociali. Tutti diventiamo potenziali vittime. Ma la vittima è un soggetto debole e passivo. Tende ad accettare protezione in modo acritico, fino a giustificare la violenza come forma di difesa. E il rischio, oggi davvero ravvicinato, è quello della giustizia sommaria, dell'imbarbarimento dei rapporti civili.
Perciò quel contenitore dobbiamo saperlo aprire e, con pazienza e coraggio, svuotare. E lo possono fare solo, insieme, lo Stato e la società. Lo Stato con un maggior controllo del territorio e con la severa certezza della pena. E poi la scuola che deve servire a formare cittadini consapevoli. E poi la televisione che deve educare alla coscienza critica e alla consapevolezza delle molteplicità del mondo. E poi nuove sicurezze sociali per chi sente drammaticamente di impoverire. E per quei ragazzi che vivono la drammatica condizione della precarietà.
E poi io sento il dovere, etico prima che politico, di contrastare l'insopportabile clima di "egoismo sociale" riaffermando la cultura della solidarietà come il migliore antidoto all'imbarbarimento del presente.
E' un impegno politico, ma credo sia anche, per ciascuno di noi, un pezzo del nostro "lavoro" di essere umani. Con quella consapevolezza che ci permette di agire per affrontare i rischi che si pongono di fronte a noi. Con quello sguardo agli altri, e al futuro, che è l'unico modo per squarciare il buio della paura e fare luce sul cammino che ci attende.
Walter Veltroni
La Repubblica 1 giugno 2008
martedì 3 giugno 2008
Quelle tre paure da disinnescare solidarietà per fermare barbarie
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