lunedì 27 ottobre 2008

La politica del disprezzo del premier e "l'assedio democratico del Pd"

SOLO nella "democrazia dell'applauso" che Berlusconi gradisce può succedere che la voce di una piazza, sicuramente severa ma serena, venga tacitata con uno spregevole "frottole e insulsaggini". Solo nell'"Impero dell'assenso" cui il Cavaliere ambisce può accadere che alla critica di un oppositore, sicuramente aspra ma legittima, si risponda con uno sprezzante "si riposi e ci lasci lavorare".

Come se nel sano gioco democratico non fosse proprio questa la funzione dell'opposizione: incalzare e insidiare ogni giorno la maggioranza, e non certo restare seduta in panchina per cinque anni, ad osservare immobile le giocate del "manovratore" e ad aspettare in silenzio che arrivi il fischio di fine legislatura.



Eppure è esattamente questa la realtà in cui vive questo Paese, degradato da un quasi Ventennio di berlusconismo dominante. La reazione del presidente del Consiglio alla grande manifestazione organizzata dal Pd al Circo Massimo è l'ennesimo indizio di quale deriva inquietante abbia imboccato il "premierato di comando" del Cavaliere. Nelle sue parole infastidite c'è una visione tecnicamente "totalitaria" della dialettica politica. Non c'è solo l'insofferenza verso ogni forma di dissenso. C'è anche l'intolleranza verso quello che Antonio Gramsci chiamava "l'assedio democratico" che le forze che ambiscono a governare, attraverso la critica incisiva e la proposta alternativa, devono portare a chi governa.

E invece è proprio questo che si è verificato sabato scorso, al Circo Massimo.
Un buon esercizio di "assedio democratico". Walter Veltroni ha riconquistato un pezzo importante dell'agorà. Cioè proprio di quello spazio, politico e pubblico, che il Cavaliere vorrebbe appunto ridotto all'assenso, o al silenzio. Già solo per questo l'evento è stato un successo per il leader che l'ha voluto, e un segnale per il Paese che l'ha osservato.

Il Pd ha dimostrato di esistere innanzi tutto a se stesso, attraverso una grande partecipazione popolare che rinsalda un legame sancito dalle elezioni primarie. Ma lo ha dimostrato anche all'Italia, attraverso un atto di fiducia collettiva che squarcia il velo del conformismo imperante ed apre almeno uno spiraglio alla speranza di una fase nuova e di una politica diversa, che può esistere al di là del "pensiero unico" della destra. Ci sarà modo e tempo per rispondere alle tre domande cruciali, che tuttora pendono sul Pd e che Veltroni ha lasciato in sospeso.

La prima domanda riguarda il rapporto con la società. Come si può ritornare a parlare a quella vasta area del Paese che ti ha voltato le spalle? Se è vero che "l'Italia è migliore della destra che lo vuole rappresentare", è purtroppo altrettanto vero che il Paese ha liberamente scelto di farsi governare proprio da questa destra "peggiore". Il centrosinistra non può non riflettere su questo, se non vuole archiviare il 25 ottobre come una prova di forza, magnifica ma autoreferenziale, e non vuole rifugiarsi nel porto sicuro, nostalgico ma minoritario, della berlingueriana "diversità".

L'ingranaggio tendenzialmente illiberale della macchina di potere berlusconiana (dominio politico-controllo economico-monopolio mediatico) è un problema enorme. Ma da solo non basta a spiegare il consenso "nordcoreano" riconosciuto al Cavaliere persino dal New York Times.

La seconda domanda riguarda il rapporto con la maggioranza. Se la natura di questa destra al governo è così rozza e imperiosa secondo la descrizione di Veltroni, così dura e dispotica secondo la reazione del premier, come si può continuare a parlare di "dialogo"? Berlusconi ha tutto l'interesse a usarlo come "termometro ideologico", per misurare tutti i rialzi di temperatura della sinistra e per denunciarne la presunta "febbre anti-democratica".

Veltroni ha tutto l'interesse a sfilarsi da questo trabocchetto politico: il Pd ha deve alzare la voce ogni volta che serve, e recuperare la sua capacità di proposta, distinta e diversa. Il dialogo può essere un buon "metodo" solo se chi lo invoca ne rispetta le regole. E soprattutto se, attraverso di esso, si raggiungono accordi migliorativi nel "merito". Ma che dialogo c'è con un premier che dichiara "facinorosa" la tua piazza composta, e respinge con un "me ne frego" qualunque offerta di collaborazione sulle misure anti-crisi? Che dialogo c'è con un ministro che definisce "campagna terroristica" la tua protesta pacifica sulla scuola, e rifiuta qualunque modifica al suo decreto? Il riformismo è modernizzazione della società, ma è anche conservazione dei valori repubblicani.

La terza domanda riguarda il rapporto con le opposizioni. Come si può rielaborare una strategia delle alleanze, riaprendo il confronto con Idv e sinistre, e provando a gettare un ponte verso l'Udc? E' un triplo salto mortale. Ma proprio il messaggio forte arrivato dal Circo Massimo consente l'azzardo. Se il Pd gioca le sue carte a viso aperto nella sua metà del campo, con la forza di un profilo identitario che respinge il massimalismo ma con il coraggio di un progetto radicalmente alternativo a quello della destra, può fare sua l'intera posta.

La prova è nelle parole concilianti di Di Pietro, che ora definisce la piazza veltroniana "la mia casa". E' la prova che sbaglia chi confonde il riformismo con la moderazione. Tanto più al cospetto di una "dittatura della maggioranza" così pervasiva, il riformismo deve coniugare responsabilità, compatibilità, ma anche radicalità. Lo slogan "un'altra Italia è possibile" non può diventare una scorciatoia nella suggestione anti-globalista e alter-mondialista. Ma il senso di questa festa del 25 ottobre dimostra che "un'altra politica" non solo è possibile, ma è necessaria.

Metterla responsabilmente in campo, ed opporla fermamente alla destra, è da oggi in poi la missione del Pd. Ma a condizione che i suoi leader smettano di indulgere nelle rituali pratiche di cannibalismo interno, ed inizino finalmente a dimostrarsi all'altezza del compito che le centinaia di migliaia di persone presenti al Circo Massimo gli hanno affidato. Per una sinistra riformista non ci sarebbe stagione più propizia di quella in cui bruciano, in un gigantesco falò delle vanità, gli immensi "valori di carta" del turbo-capitalismo moderno.

27 ottobre 2008
M.Giannini
La Repubblica

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